L’eclettico Verdicchio, monopolio delle Marche
A metterli insieme, i vitigni che fanno l’Italia del vino non sono più di una ristretta pattuglia. Eppure, con ogni comprensibile diversità, occupano buona parte del territorio. Basti pensare alla larga presenza del Sangiovese o del Montepulciano. Anche se di contro c’è il fenomeno opposto. Vale a dire di uve che hanno una modesta geografia, o che per la loro unicità sono espressione soltanto di un preciso topos. Insomma, vini-bandiera, che si associano a un luogo, come avviene per il santo-patrono.
E’ il caso del Verdicchio, da sempre allevato solo nelle Marche, o meglio in quell’entroterra fatto di creste, che va dalla valle dell’Esino da un lato, a quella del Musone dall’altro. Due confini che rischiano di mortificare lo stretto rapporto – antico, profondo, carnale – che lega il Verdicchio alla storia delle Marche.
Le quali non si pongono solo come l’unica regione d’Italia al plurale, ma esprimono nel nome la varietà e la ricchezza di un mondo. Un fenomeno che ha preso corpo nel corso dei secoli, grazie anche al diffuso frazionamento di quei feudi – la “Marca”, appunto – che insieme hanno poi dato vita a quel tuttuno che sono oggi le Marche.
Non a caso è stata definita una regione, “somma più che sintesi”, e Guido Piovene la considera “una terra filtrata, civile, la più classica delle nostre terre”, in omaggio a quel suo pluralismo culturale che si è sedimentato nel tempo e che ancora sopravvive in quei piccoli centri carichi di storia, che costituiscono il prezioso tessuto della regione.
Perché le Marche in fatto di beni culturali non solo reggono il confronto con aree ben più consacrate, ma spesso vantano veri e propri primati. Pensate. Una regione, fra le più piccole d’Italia, che annovera oltre cento castelli, tutti conservati al meglio e soprattutto fruibili, e che su 246 comuni può contare ben 242 musei e pinacoteche di tutto rispetto, nonché oltre trecento biblioteche. Siamo a rapporti da primato, se si considera il numero degli abitanti e la modesta distanza che intercorre fra i vari centri.
Così alla fine non sorprende che anche in fatto di teatri – di quelli storici, dalle suggestive architetture egregiamente tutelate – le Marche guidino la classifica. Sono oltre settanta, e molti hanno trascorsi più che illustri.
Viene da chiedersi come si spiega un tale concentrato di arte, letteratura e storia. Che, in verità, per molti ha il sapore di una scoperta, visto che al di là di Recanati e del suo Leopardi, le Marche godono di scarsa popolarità in quanto a giacimenti culturali. E invece, basta allontanarsi dalla linea della costa, lasciare i verdi riverberi dell’Adriatico per i dolci rilievi dell’interno, perché questo mondo finisca per incantare anche il viaggiatore meno sensibile.
Certo, l’immagine più celebrata delle Marche, resta quella del Conero, col suo profilo di cetaceo, le pareti che precipitano a mare, la maestà di quel monte che s’impone a dispetto della sua modesta altezza (poco più di cinquecento metri), la folta vegetazione di lecci, lauri, lentischi. Perché è questo il fotogramma caro agli italiani.
Così il silenzio, i fitti boschi di faggi e frassini, i piccoli paesi sparsi in scenari antichi, l’atmosfera da pittura del Quattrocento, restano fuori dai percorsi turistici. Eppure il solo accesso a questi borghi non manca di suggestione. A cominciare da quei lunghi filari di pioppi, tigli, ippocastani e gelsi che ci accompagnano fin sotto la cinta muraria, le torri, il castello. E poi la piazza, che conserva sempre i caratteri dell’agorà, di uno spazio consacrato alla partecipazione del popolo alla vita pubblica. Così le Marche s’identificano con queste realtà, che ci restituiscono a tutto tondo il suo passato. Quello vissuto in una rete di piccole comunità, dove il costante frazionamento del territorio non ha mai favorito aggressioni e conquiste.
La presenza di famiglie come i Montefeltro a Urbino, i Da Varano a Camerino, i Malatesta a Pesaro, spesso a loro volta legate a insediamenti e a signorie ben più importanti, ha garantito secoli di tranquilla convivenza, consolidata poi dal dominio della Chiesa, a partire dai primi del Cinquecento.
E il Verdicchio? In questo contesto il Verdicchio si è inserito lentamente con la medesima importanza e nobiltà acquitate sul “terreno” particolarmente favorevole per le condizioni geomorfologiche e microclimatiche.
Quanto si è detto del Verdicchio facendo in nome di Annibale, di Alarico o di scrittori medievali è solo frutto di leggende ad arte costruite verso la metà del Novecento. Nessun Alarico e nessun monaco medievale ha trasportato o scritto del Verdicchio. Di esso si inzia a parlare verso la metà del Cinquecento, qui nelle Marche ad opera di Mambrino Rosei (1500c.-1580c.) di Fabriano e del botanico di Piobbico (1525-1585). Con tutta probabilità è arrivato nella Valle dell’Esino con la migrazione dei Lombardi poco oltre la metà del Quattrocento chiamati a ripopolare le campagne dopo un terribile epidemia di peste. Recenti analisi genetiche hanno confermato la stretta parentela tra il Verdicchio e il Trebbiano di Soave.
L’analisi genetica ha negli anni aperto un lungo contenzioso sulla stretta parentela fra il Verdicchio e il Trebbiano di Soave. E’ probabile che quest’ultimo altro non sia che l’antica Turbiana, che ai primi dell’Ottocento risultava coltivata in tutta la zona. Ma anche l’unicità del vitigno è stata oggetto di studi, e in proposito pare che sulla sua presenza non ci siano più dubbi, benché oggi sopravviva solo con pochi ceppi nell’area veronese.
Trascorsi storici a parte, il Verdicchio ha da sempre un preciso spartiacque, che non sfugge a chi ha un minimo di confidenza con questo vino. Infatti quello coltivato a Matelica, nel maceratese, è più dotato sul piano dell’olfatto, mentre quello nella Valle dell’Esino e zone limitrofe, nell’anconetano, risulta avere più corpo e struttura. In effetti, si tratta di due Verdicchi radicati su un ristretto territorio, assai vicini ma anche alquanto diversi.
Gli esperti, pur attenti alla continuità geografica, fissano due identità: Verdicchio di montagna, Matelica, e di mare, dei Castelli di Jesi. Il territorio è quello che parte dalle alture di Serra San Quirico e di Arcevia e si allunga nelle valle dell’Esino e del Misa godendo della ventilazione proveniente dall’Adriatico. Questa duplice presenza accresce il carattere eclettico del Verdicchio. Il quale dà vini giovani, di gradevole beva, ma anche vini strutturati e longevi, nonché Spumanti (metodo classico e Charmat) e Passiti.
Questo non esclude che la sua fortuna sia legata – almeno fino a tutti gli anni Sessanta – alla versione fresca e semplice, prima che le ambizioni e l’impegno di alcuni produttori, nonché le più avanzate conquiste dell’enologia, non abbiano portato a scoprire nel Verdicchio insospettabili qualità e caratteri, tali da farne un vino con ben altre aspirazioni.
E qui il primo intervento si è avuto ovviamente nelle vigne. A cominciare dalla distribuzione delle piante fino alla potatura e alla resa. Un lavoro rigoroso e paziente, che ha richiesto soprattutto tanta fiducia nei futuri destini del Verdicchio. La cui uva si avvia a crescere di qualità di anno in anno, prima di poter garantire una buona struttura, spalla acida ed elevato tenore alcolico.
Poi, a seguire, il lento, progressivo lavoro in cantina, con ogni prevedibile incognita su uve ancora da scoprire. I primi risultati – del tutto impensabili qualche anno prima – aprono nuovi fronti. Alle tecniche di vinificazione si aggiungono continui confronti e verifiche, anche per quanto riguarda i tempi della vendemmia, ormai sempre più tardiva. Nascono così i primi Verdicchi evoluti, ricchi di una gamma di profumi e di note minerali mai emersi prima, e suggellati da quel finale appena amarognolo.
Si direbbe un altro vino, se non fosse così ancorato al territorio e così espressivo del suo humus. Specialmente per quelle doti di longevità, del tutto estranee all’originario Verdicchio. Siamo a quel felice percorso che porterà prima alla Doc del ’68 e poi alla Docg per le due Riserve di Matelica e di Jesi, nel 2009. Ma è solo il riconoscimento all’azione di riscatto di un grande vino, troppo a lungo mortificato nelle sue potenzialità per rispondere a un mercato che lo richiedeva “fresco, giovane, poco alcolico e di gradevole beva”.
“Sì, è così che la gente voleva il nostro vino, e mi creda, le cantine si svuotavano”, mi dice un vecchio vignaiolo di Cupramontana, considerata da sempre la capitale del Verdicchio. Il crescente successo lungo gli anni Sessanta, è anche legato alla scelta della bottiglia ad anfora, che l’architetto Antonio Maiocchi realizza per la Cantina Fazi-Battaglia.
Il vino finisce così per identificarsi con quella immagine (come era già avvenuto con il fiasco di paglia per il Chianti), favorito anche dall’esplosione nel cinema delle maggiorate fisiche, dalla Lollo alla Loren, le cui forme apparivano come riproposte nella bottiglia. Una leggenda che non mancò di trovare credito in quegli anni, quando l’Italia avanzava carica di entusiasmo verso il boom economico.
La richiesta finisce a questo punto per superare ogni disponibilità. Per cui dell’originario e semplice Verdicchio resta solo il nome, sempre più compromesso da un vino di scarsa qualità. Di qui una decisa battuta d’arresto, che nel decennio successivo peserà anche sulla produzione meno dozzinale.
Sono in molti, lungo gli anni Settanta, a recitare il requiem per il Verdicchio, visto che i vari tentativi per un’inversione di tendenza continuano a fallire. Poi, la testardaggine di un pugno di produttori e il coinvolgimento di una “rosa” di enologi riportano lentamente il Verdicchio in quota.
Gli anni Ottanta premiano l’impegno e il sacrificio di quanti – in verità piuttosto pochi – hanno creduto nella riscossa del vino. L’ottimizzazione della gestione agronomica dei vigneti, attraverso il diradamento dei grappoli, l’aumento della fittezza d’impianto e l’inerbimento controllato, ha portato a maggiore equilibrio vegeto-produttivo. A questo ha fatto seguito una parallela evoluzione dei processi di vinificazione, di affinamento e maturazione, che ha consentito di ottenere prodotti più longevi ed equilibrati capaci di valorizzarsi nel tempo.
Intanto la strada da fare è ancora lunga. Non bastano i terreni argilloso-calcarei, la felice esposizione, le escursioni termiche, il quoziente di potassio ideale per lo sviluppo di quei particolari aromi. E’ tempo di tenere d’occhio anche l’epoca della vendemmia e di affinare il vino in botti di legno di varie tostature e dimensioni. Solo così è dato di avere vini equilibrati e robusti, tali da invecchiare con grande eleganza, come è concesso a pochi Bianchi.
Ma c’è di più. La spiccata duttilità del Verdicchio ha favorito fin dall’Ottocento la sua spumantizzazione, avviata allora dallo spirito di ricerca di Ubaldo Rosi. Da questo momento si sono affinate le tecniche di produzione secondo il metodo Charmat ed il metodo Classico che hanno portato alla creazione di prodotti ricchi di personalità ed esclusività.
Dalla riscoperta di un’antica pratica contadina radicata nel territorio, fino al particolare contributo della muffa nobile, il Verdicchio è stato anche utilizzato per la produzione delle tipologie passite grazie al suo straordinario eclettismo.
“Abbiamo imparato a far lavorare il tempo. Che è uno strumento costoso, e forse per questo poco usato. Per fare un buon vino, di quelli che hanno legittime ambizioni, non si può prescindere dagli anni. Averne un po’ alle spalle, dopo averli impegnati in sperimentazioni, ricerche, verifiche, successi e sconfitte, è la più ricca miniera cui attingere. Il resto è volontà, fiducia, fortuna… ”.