Salvaguardare la biodiversità viticola, come e perché

di Aldo Lorenzoni e Luigino Bertolazzi

 

Se consideriamo che la Comunità europea ha riconosciuto che la conservazione della biodiversità in senso generale costituisce un obiettivo fondamentale della strategia per lo sviluppo sostenibile e che alla salvaguardia della diversità biologica del territorio, sono strettamente legate altre emergenze ambientali, come i cambiamenti climatici e la disponibilità di risorse naturali. Che ha inoltre da tempo inserito la salvaguardia, il ripristino e il miglioramento della biodiversità tra le sei priorità dell’Unione in materia di sviluppo rurale per i Psr 2014-2020 e confermato queste priorità con ancor più forza in tutti i documenti di indirizzo della Commissione europea che definisce le strategie dell’Ue sulla biodiversità fino al 2030 diventa quindi utile capire meglio come questi indirizzi possano concretamente essere applicati specificatamente alla viti-viticoltura.

 

 

Caoduro: è un obiettivo irrinunciabile

In un recente convegno organizzato da Graspo in sintonia con l’Accademia di Agricoltura di Verona per una presentazione ufficiale del libro “La Biodiversità Viticola: i custodi, i vitigni, i vini “ è stato Gianfranco Caoduro, presidente onorario di WBA Onlus (World Biodiversity Association) ad inquadrare nella sua complessità questa tematica molto attuale evidenziando che la biodiversità può essere definita come la varietà degli organismi a tutti i livelli, da quello intraspecifico, delle varianti genetiche dei singoli individui di una specie, al livello interspecifico, relativo alle differenze tra specie e gruppi tassonomici; essa comprende anche la diversità ecosistemica, cioè la varietà dei vari ambienti presenti in un dato territorio.
La biodiversità rappresenta quindi la risorsa più importante dei sistemi naturali del nostro pianeta. La sua tutela, pertanto, è funzionale alla stessa conservazione degli ecosistemi, dai quali dipendono direttamente o indirettamente tutte le attività antropiche. In sostanza, si può affermare che ogni specie vivente rappresenta una risorsa potenziale, un’opzione per il futuro, mentre ogni specie estinta è un’opportunità mancata. Pertanto, la diversità biologica è una delle risorse fondamentali per l’uomo, come le risorse idriche e quelle energetiche.
Il mantenimento di un’elevata biodiversità nell’ambiente deve rappresentare un obiettivo irrinunciabile per le attività produttive, soprattutto nel settore primario.
L’agricoltore moderno, quindi, deve porsi il problema di come favorire la biodiversità in azienda e gestire i rischi di una sua possibile riduzione in quanto è stato accertato lo stretto rapporto tra qualità biologica dell’ambiente e qualità dei prodotti. Il ricorso a tutte le “buone pratiche agronomiche” che garantiscono la conservazione della fertilità dei suoli, la corretta gestione delle risorse idriche, il controllo di parassiti e infestanti attraverso metodi a basso impatto, contribuiscono al mantenimento della biodiversità negli agrosistemi. Altri interventi come la diffusione di siepi e aree boscate, di specie nettarifere, e l’uso delle rotazioni, favoriscono l’incremento della diversità biologica negli agrosistemi, migliorando, nel contempo, la qualità di aria, acqua e suolo. Inoltre, un paesaggio agrario ricco di biodiversità favorisce l’attività di una moltitudine di “nemici naturali” dei parassiti, in grado di mantenere le pullulazioni di questi ultimi al di sotto della soglia di danno e consentendo una notevole riduzione nell’uso di pesticidi di sintesi o biologici. Per rafforzare la nostra resilienza e prevenire la comparsa e diffusione di malattie future, conclude Caoduro, è perciò fondamentale proteggere e ripristinare la biodiversità e il buon funzionamento degli ecosistemi.

 

 

 

Scienza: è una risorsa culturale dell’Italia

Della biodiversità più specificatamente viticola ha invece parlato Attilio Scienza dell’Università di Milano ribadendo quanto spiegato nell’introduzione al testo e sottolineando che la biodiversità della vite è a tutti gli effetti una risorsa culturale (e non solo colturale) dell’Italia. La diversità biologica della vite coltivata, risultato di migliaia di anni di selezione e determinata dalle mutazioni, dalla ricombinazione genica e dall’effetto delle pressioni selettive operate dal clima e dall’uomo, è un’eredità che la natura e i nostri antenati ci hanno lasciato e che non può essere ricreata in laboratorio: una volta distrutto questo capitale non potrà essere ricostituito e sarà perso per sempre.
Se si vuole conoscere la storia di un territorio viticolo attraverso le vicende che hanno accompagnato l’affermazione dei suoi vini, ha continuato Scienza, è necessaria una riflessione che parta dai suoi vitigni originali, perché solo attraverso questi è possibile sviluppare la storia degli uomini, della loro cultura materiale, della loro evoluzione culturale, dei cambiamenti climatici e del sistema sociale in genere. I vitigni, infatti, sono gli elementi stabili per una infinità di generazioni di viticoltori: gli uomini muoiono ma i nuovi abitanti, pur aggiornando le abitudini, mantengono e spesso incrementano i vitigni dei loro predecessori.
L’attuale crisi della biodiversità nelle specie vegetali in genere è stata definita la sesta estinzione e rappresenta solo un aspetto della attuale tendenza alla semplificazione delle differenti manifestazioni della vita. dove purtroppo la monocultura della mente è più devastante di quello biologica.
Conservare la biodiversità non significa tuttavia mantenere le varietà di vite in una collezione, ex situ, dove raccogliere come in un museo i genotipi a rischio di scomparsa ma, per le profonde connessioni tra vitigno antico e cultura del luogo che lo ha selezionato e coltivato fino ad ora, queste varietà devono ritornare ad essere le protagoniste dello sviluppo agricolo ed economico di quelle popolazioni. Un vitigno autoctono smette di essere una curiosità biologica e diventa cultura nello stesso momento in cui esce da una collezione ampelografica e ritorna ad avere un rapporto con lo spazio.
Questo spazio non è solo un suolo, un clima, una tecnica colturale ma soprattutto un insieme di tradizioni in divenire, un oggetto culturale.
Nello sviluppo di un progetto di valorizzazione deve sempre risultare chiara la relazione tra la cultura locale, il vitigno antico e il vino immesso sul mercato.
Questi prodotti devono mantenere, quando inseriti nel circuito commerciale, una chiara identità e una protezione. L’Italia ha una grande responsabilità nei confronti della cultura viticola europea: quella di custodire il senso della storia che è insito nella tradizione, di mantenere vivo quel rapporto che esiste tra universalità del mito e tradizione, dove i segni tangibili dei simboli sono veicolati dai vitigni antichi e dai luoghi che ce li fanno rivivere.
La coltivazione delle varietà italiche, va interpretata nel segno della tradizione come un “tradimento fedele” della tradizione stessa, solo se la loro coltivazione e vinificazione non ricalca schemi del passato, ma utilizza correttamente l’innovazione tecnologica per offrire ai consumatori, dei vini moderni, adatti al gusto e alle abitudini alimentari dei nostri giorni.

 

 

Schneider: come si opera sul campo

 

Ma, in concreto, come si opera sul campo per mettere in sicurezza quei vitigni storici che rappresentano la memoria genetica della ricchissima biodiversità viticola italiana?
Qui ci risponde Anna Schneider, ampelografa e ricercatrice fino a poco tempo fa presso il Consiglio nazionale delle ricerche di Torino, Istituto per la Protezione sostenibile delle piante, incontrata nel tour di presentazione del libro a Racconigi (Cn).
“Il recupero di vitigni rari e in via di abbandono nei territori tradizionalmente viticoli è un’attività che sembra semplice ma in realtà ha una sua complessità e, per essere efficace, richiede conoscenze e competenze abbastanza differenziate. Il primo passo da compiere all’avvio di un programma di recupero per la salvaguardia di varietà locali di vite è quello di consultare documenti storici locali e di raccogliere tutte le possibili informazioni sull’assortimento varietale presente nel passato prossimo e/o nel passato remoto in quella zona.
Avere un’idea di quali cultivar di vite fossero presenti, pur con l’ostacolo rappresentato dai sinonimi e ancor peggio da vitigni omonimi che si prestano a confusione, può esser di grande aiuto nel dialogo con i vignaioli, i vivaisti e gli appassionati locali.
Tale conoscenza sull’assortimento storico dei vitigni in una certa zona, sulla loro diffusione, caratteristiche e aspetto, è poi fondamentale quando si lavori a collegare quanto recuperato con quanto descritto storicamente, ad identificare cioè le varietà reperite, soprattutto quando se ne è persa la memoria del nome o quando questo non è corretto.
Un secondo aspetto da tener presente quando si intraprende un programma di recupero, soprattutto se strutturato e organizzato, è quello di informare i viticoltori locali del progetto in questione. Fare in modo cioè che a tutti giunga notizia di tale attività, far comprendere agli operatori locali (vivaisti, tecnici e viticoltori) l’importanza della loro indispensabile collaborazione. Il binomio vecchio vigneto-anziano agricoltore è senza dubbio il più indicato per recuperare parecchio materiale e riuscire per lo meno a dargli il nome locale. Vecchio vigneto perché sono senza dubbio gli impianti storici, addirittura pre-fillosserici se siamo molto fortunati, ma già interessanti se vecchi di 60-80 anni, a conservare almeno in parte vitigni un tempo presenti e oggi scomparsi dagli impianti moderni. Un vecchio vigneto è spesso poli-varietale, tanto più se si opera in una zona marginale per la viticoltura. In tali vigneti si trovano di solito molte piante delle 2-3 cultivar predominanti nel territorio e pochi ceppi sparsi di vitigni minori o rari, spesso quelli da recuperare. Talvolta però vanno osservate anche piante fuori dai vigneti commerciali, magari allevate accanto alle abitazioni, o vetusti singoli esemplari addossati ai muri, arrampicati sui balconi, piantati al lato di portali, accessi, viottoli. Anche queste piante possono rappresentare vitigni minacciati di scomparsa”.

 

La parola d’ordine è tracciabilità

 

Una volta individuato un vitigno con caratteri diversi ed originali come si opera concretamente?
“Qui la parola d’ordine è tracciabilità, risponde Schneider, ogni pianta va cartellinata, la sua posizione nel vigneto va annotata (coordinate gps ad esempio), il vigneto codificato o denominato in modo da riconoscerlo, la data registrata, così come il nome e il contatto del viticoltore che ci ha accompagnati, noi stessi “raccoglitori”, la località, il villaggio, ecc.. Il materiale di quella pianta entrerà magari in collezione con un codice, ma ad esso dovranno essere collegate, oltre al nome locale del vitigno se conosciuto, tutte le citate informazioni che permetteranno di rendere unico e tracciabile il nostro ritrovato e ad altri di poterne usufruire. Il recupero e la conservazione di una risorsa genetica locale non solo è un lavoro di squadra, tale per cui tutti i componenti devono poter essere informati, ma è soprattutto un impegno per altri che nel futuro propagheranno, useranno, studieranno, beneficeranno di quella risorsa, comprese le informazioni ad essa associate.

 

Quanto conta l’aspetto sanitario nei confronti delle virosi per questi individui che hanno tante vendemmie sulle spalle?
A differenza di altre specie arboree da frutto, risponde l’Ampelografa, nel corso di decenni e talora di secoli di propagazione vegetativa soprattutto per innesto, nelle piante di vite si sono fortemente diffusi e accumulati virus, di cui alcuni patogeni.
L’ideale, quando si propaga la pianta di un vitigno recuperato per metterla in collezione o per impiantare altri vigneti, è quella che la pianta non sia infetta con i 7 virus ritenuti più dannosi, gli stessi da cui devono essere esenti i cloni certificati. Per la verità la legge non impedisce di propagare anche materiale virosato e del resto questa è l’unica via per vitigni fortemente infetti di cui non è possibile trovare piante sane.

Quante piante vanno salvate per ogni vitigno a rischio?
Prima di rispondere è necessario fare una premessa. Pure appartenenti allo stesso vitigno (e dunque, nella stragrande maggioranza dei casi, derivate da un unico semenzale) con il passare del tempo le piante che si ottengono da questo per propagazione tendono a divergere lievemente, sia nella loro molecola di Dna che nei caratteri che da essa dipendono. La ragione è che con il tempo si producono mutazioni nel Dna, piccole variazioni che non ne compromettono struttura e funzionalità, ma che possono determinare differenze tra un ceppo e l’altro indipendenti dall’annata, come per esempio un grappolo un poco più piccolo, una foglia più incisa, una produzione più contenuta. Questo fenomeno determina una variabilità genetica intra-varietale che al pari di quella tra le varietà è imperativo mantenere il più possibile, perché anch’essa è destinata ad essere fortemente erosa con la scomparsa dei vecchi vigneti e l’adozione di cloni certificati, che sono sempre in numero infinitamente inferiore rispetto alle piante di uno stesso vitigno coltivate in vari vigneti e in vari luoghi.
Dunque, alla domanda se è bene conservare le discendenze di una o più piante madri di uno stesso vitigno, la risposta è: tante, il numero maggior possibile.
Per i vitigni minori e in via di abbandono, per i quali di solito la variabilità intra-varietale è assai più ridotta, ci si potrà limitare a conservare, a seconda delle disponibilità finanziarie, qualche accessione e soprattutto quelle provenienti da vigneti, località o zone diverse, proprio per la più alta probabilità che siano maggiormente divergenti a livello genetico. Anche qui, come nel caso della presenza o meno di virosi, caratteri desiderabili delle piante madri potranno guidare la scelta, nella speranza che essi si mantengano anche nella discendenza per propagazione.

Come si opera oggi per identificare dal punto di vista varietale ogni singola pianta?
Lo stabilire con sicurezza l’identità varietale è senza dubbio una delle tappe chiave nel lavoro di recupero e conservazione. Per via della coltivazione millenaria in una vastissima area geografica e delle migrazioni di molti vitigni insieme agli spostamenti umani, la denominazione delle cultivar di vite si presenta veramente complessa, con un numero di sinonimi (nomi diversi per la stessa varietà) che è stimato essere in media poco meno di tre volte il numero dei vitigni esistenti. Le cultivar che hanno più viaggiato annoverano decine di sinonimi ed uno stesso vitigno può esser designato in modo diverso anche soltanto nel villaggio vicino: chi si occupa di recupero di vecchie cultivar in un certo territorio ha ben presente questa condizione. Confusioni si profilano anche per vitigni omonimi, diversi ma designati allo stesso modo per via di qualche tratto comune, vero o presunto, e dunque non distinguibili dal loro nome.
In vite, per via dell’origine di quasi tutti i vitigni da un semenzale frutto dell’incrocio di due altri vitigni, alcuni marcatori del DNA possono rivelare a costi relativamente contenuti l’identità varietale per confronto del profilo genetico con bibliografia, banche dati di riferimento o con altri campioni analizzati. Un campione che risulta avere un profilo unico, mai analizzato, consiste presumibilmente in un vitigno non ancora descritto o campionato da altri o la cui esistenza non è ancora stata resa pubblica.

Concretamente cosa bisogna fare una volta individuato un vitigno particolarmente interessante o ad alto rischio di estinzione genetica?
A differenza di altre specie di interesse per l’agricoltura come i cereali e le ortive, la conservazione del materiale genetico di molte colture arboree tra cui la vite non è opportuno sia fatta mediante lo stoccaggio di semi. Ciò non solo perché l’ottenimento da essi di piante fertili richiede tempi lunghi, ma anche perché ogni semenzale darebbe origine a un individuo geneticamente distinto e diverso anche dalla pianta che quei semi ha prodotto. La discendenza da seme, in altre parole, non darebbe una popolazione di caratteristiche uniformi e uguali ai genitori, e non permetterebbe dunque di conservare invariata una determinata varietà.
Ne consegue che il modo usuale per salvaguardare un vitigno raro o prossimo all’estinzione è quello di allevarne delle piante in vivo e alla fine del loro ciclo di vita, che si protrae normalmente per qualche decennio, ottenerne per propagazione altre viti con cui rinnovare il ciclo di conservazione. Se il mantenimento di tale risorsa avviene nel luogo dove quella varietà è stata individuata (ad esempio un vecchio vigneto presso un’azienda agricola) si parla di conservazione in situ. Se invece il vitigno viene introdotto in un luogo diverso da quello dove di trovava, ad esempio una collezione centralizzata che ospita materiali di provenienza diversa, si parla di conservazione ex situ, ad indicare l’estraneità del luogo di conservazione rispetto a quello di ritrovamento.

Va ricordato a chi vuole oggi operare nella raccolta e nella conservazione delle risorse genetiche a rischio di scomparsa, che l’attuale recupero di tale prezioso patrimonio è stato reso possibile grazie alla cura e alla custodia che gli agricoltori locali hanno esercitato nel tempo con ostinazione, mantenendo in vita qualche pianta. Se fosse mancata tale attenzione, esercitata quasi sempre per passione e non certo per profitto, avremmo irrimediabilmente perduto quel materiale. Un altro aspetto poi da non dimenticare è che un vecchio vitigno tradizionale, quasi scomparso e recuperato, rimane patrimonio materiale della comunità rurale che lo ha mantenuto. Anche se sfruttato commercialmente da un unico o pochi soggetti, il suo utilizzo non può essere vincolato da privative o limitazioni sull’accessibilità ad altri.